Gli incontestabili successi dell’olio di Chiaramonte, nel corso degli ultimi cinque anni potrebbero far pensare a una tradizione colturale plurisecolare senza ombre o problemi, che non coincide però con le informazioni risultanti dalle fonti storiche disponibili.
Per quanto attiene agli olivi selvatici, la loro presenza spontanea si perde nella notte dei tempi, ma è giusto ricordare che risultano tuttora preziosi come porta innesto, se si vuole assicurare all’ulivo la longevità millenaria, ancora testimoniata dalla presenza e dalla produttività dei cosiddetti ulivi saraceni. Il merito della diffusione dell’ulivo selvatico in tutta l’area mediterranea è attribuita al “marvizzu” (tordus italicus), un uccello migrante che si nutre del frutto degli olivi sia selvatici che domestici, depositando poi al suolo i noccioli, parzialmente digeriti, dai quali nasceranno le piantine portainnesto. Per quanto riguarda l’ulivo domestico, sappiamo per certo che fu dapprima coltivato in Siria, e che fu importato in Sicilia in un periodo compreso tra VIII e IV secolo a.C. dai fenici e dai greci, come testimoniato da Diodoro Siculo. Dovrà trascorrere ancora molto tempo, però, perché si possa parlare di coltivazione intensiva.
Venendo a tempi più recenti, la presenza nel territorio chiaramontano di un certo numero di piante caratterizzate da tronchi grossissimi (fino a 10 metri di circonferenza), i già citati “ulivi saraceni”, induce a pensare a impianti risalenti all’epoca della dominazione araba e al successivo periodo normanno. Dice in proposito lo storico Illuminato Pera:
Nel secolo XII gli oliveti si allargavano, grazie ad una mentalità che cercava utili che andassero al di là della propria generazione; proprio per significare questo il vescovo Angerio volle che nel suo epitaffio si scrivesse: “coltivai innumerevoli fichi, viti e ulivi”.
Ancor oggi, il detto popolare
Olivari ri to nannu, cieusi ri to patri, vigna tò
conferma la necessità di un minimo di altruismo in coloro che si accingono ad impiantare nuovi uliveti. Il detto riportato si traduce infatti: “Olivi di tuo nonno, gelsi di tuo padre, vigna tua”, e si riferisce ai tempi necessari perché una certa pianta inizi a dare frutti copiosi. Chi pianta oggi un ulivo, lo fa perché ne traggano profitto i suoi nipoti.
Ritornando alla nostra breve cronistoria, è certo che per molti secoli principale fattore di sussistenza per Chiaramonte fu l’esercizio della pastorizia, nella boscaglia di querce, sugheri ed olivi selvatici che copriva la gran parte dell’altopiano che si stende ai piedi del paese. La prima notizia relativa alla produzione di olio nel territorio di Chiaramonte risale a un atto del notaio Linfanti del 1383; in un altro atto notarile del 1549 si legge che messer Calcedando de Alcanata comprava “illam clausuram ulivis arborata de lo Columbo seu Dragonara”. Da questa data in avanti moltissimi sono i documenti che confermano la presenza di piante di ulivo; e comunque fino alla seconda metà del secolo XVIII, solo poche erano le piante innestate e quindi fruttifere.
Di uliveti come cultura specializzata si può legittimamente parlare solo alla fine del ‘700, allorché un decreto del 1778 abolì i divieti di dissodamento della boscaglia, favorendo l’incremento della cultura della vite, alla quale vennero sempre più spesso consociate pianticelle di olivo, in filari regolari, destinati a sostituire il vigneto al momento del naturale esaurimento della sua produttività.
Gli oliveti delle contrade Ponte e Piana, furono impiantati, negli anni compresi tra il 1837 ed il 1858, in filari paralleli, distanti circa 9 metri l’uno dall’altro.
La cultura dell’ulivo nel territorio raggiunse 796 ettari nel 1853 e 1920 ettari alla fine dell’800, diventando così la produzione di olio fonte non trascurabile di sussistenza per gli abitanti della cittadina; i registri della tassa sull’olio, introdotta nel 1638, consentono di documentare produzioni fortemente oscillanti che vanno dai 48 ai 720 quintali l’anno (con una eccezionale impennata di 1600 quintali nel 1850-51).
Il decreto che istituiva la tassa sull’olio consente anche di documentare l’arretratezza dei sistemi di estrazione allora in uso; si precisava infatti
[D]oversi pagare la tassa sull’olio tanto se sia stato manifatturato nei trappeti al torchio, quanto ne sia stato cavato con i piedi.
E se quest’usanza scomparve alla fine del secolo XVII, persistette, oltre la seconda metà del ‘900, la pessima abitudine di accumulare le olive raccolte in grandi contenitori (detti “camini”) e di lasciar trascorrere parecchi giorni prima di procedere alla molitura, nella convinzione che il riscaldamento e la fermentazione delle olive, consentissero l’estrazione di una maggiore quantità di olio; il risultato è stato la produzione di olio ad alta acidità, di cattivo sapore, come sottolinea l’abate Paolo Balsamo nel Giornale del viaggio fatto in Sicilia (1808) e successivamente il barone Corrado Melfi ne Gli uliveti del territorio chiaramontano (1926).
Solo a partire dal secondo dopoguerra, grazie anche alla scoperta ed all’uso degli anticrittogamici, la situazione è cambiata radicalmente. Come già sottolineato, a lungo in Sicilia e nella stessa Chiaramonte, è mancata una cultura dell’olio d’oliva, al punto che negli anni ’70 questo prezioso alimento ha rischiato di essere soppiantato dai più svariati oli di semi, mentre intere aree ulivetate venivano trasformate in agrumeti. Fu proprio nel 1970, però, che un uomo di grandissima competenza gastronomica, Luigi Veronelli, sentenziò nella sua Guida all’Italia piacevole:
A Chiaramonte Gulfi si produce olio d’oliva, di frantoio, di eccezionale bontà. Giallo dorato, è come percorso da brividi verdi, quasi nulla l’acidità. Lo giudico il migliore dell’isola.
Seguì, nel 1982, la prima fiera dell’olio d’oliva, l’individuazione di Chiaramonte tra le città dell’olio, il riconoscimento della Denominazione d’Origine Protetta, sottozona Gulfi, l’istituzione del Consorzio di tutela del DOP Monti Iblei e finalmente gli indiscutibili trionfi degli ultimi dieci anni, durante i quali l’olio delle aziende chiaramontane si è aggiudicato il 28% di tutti i premi mondiali.
Ma, a ben guardare, è stata la Tonda iblea e la piccola area vocata per la sua coltivazione a fare di Chiaramonte il paradiso dell’olivicoltura. Gli unici reali problemi di questa varietà sono l’areale troppo piccolo nel quale prosperano le piante di questa varietà, e l’alternanza di produzione, così marcata che i numerosi legati testamentari in olio dei secoli XVII e XVIII era previsto fossero soddisfatti non annualmente, ma “alterius annis ut vulgariter”, un anno sì e uno no.
Per ottenere accettabili livelli di produzione ogni anno si rendono così necessari opportuni accorgimenti, dei quali accenneremo nelle pagine dedicate alla coltivazione così come si svolge nella nostra azienda.