L’olio di Chiaramonte Gulfi e dei Monti Iblei ha riscosso tanti e tali riconoscimenti internazionali nel corso dell’ultimo decennio che si potrebbe pensare nasca da una tradizione colturale plurisecolare priva di ombre o problemi. Le cose non stanno propriamente così. Nel corso di tre brevi articoli, a partire da oggi, riproponiamo una piccola storia del nostro olio. (Il titolo è pericoloso, lo sappiamo; ma non vi preoccupate, all’uliveto ci pensiamo noi!)
La presenza spontanea degli olivi selvatici si perde nella notte dei tempi e sarebbe impossibile rintracciarne l’origine. È giusto ricordare, però, come queste piantine risultino tuttora preziose come portainnesto, e cioè per fornire l’apparato radicale alla varietà di oliva che si sta innestando, e che costituirà il nesto, la fronda dell’albero: nel nostro caso, la Tonda iblea. L’innesto sul selvatico è fondamentale se si vuole assicurare all’ulivo la longevità millenaria che può caratterizzarlo, testimoniata dalla presenza e dalla produttività sul nostro territorio dei cosiddetti ulivi saraceni: piante imponenti, che risalgono ai tempi della dominazione araba in Sicilia, a cavallo fra nono e undicesimo secolo.
Il merito della diffusione dell’ulivo selvatico in tutta l’area mediterranea è attribuito al “marvizzu” (termine dialettale con cui si indica il Turdus italicus), un uccello migrante che si nutre del frutto degli olivi, tanto selvatici quanto domestici; dai noccioli parzialmente digeriti che questo piccolo volatile deposita al suolo nasceranno le future piantine portainnesto.
Per quanto riguarda l’olivo domestico, sappiamo per certo che fu dapprima coltivato in Siria, e che fu importato in Sicilia in un periodo compreso tra VIII e IV secolo a.C. dai Fenici e dai Greci, come testimoniato da Diodoro Siculo. Dovrà trascorrere ancora molto tempo, però, perché si possa parlare di coltivazione intensiva.
Venendo a tempi più recenti, la presenza nel territorio chiaramontano di un certo numero di piante caratterizzate da tronchi grossissimi (fino a 10 metri di circonferenza), i già citati “ulivi saraceni”, lascia pensare a impianti risalenti all’epoca della dominazione araba e al successivo periodo normanno. Dice in proposito lo storico Illuminato Pera:
Nel secolo XII gli oliveti si allargavano, grazie ad una mentalità che cercava utili che andassero al di là della propria generazione; proprio per significare questo il vescovo Angerio volle che nel suo epitaffio si scrivesse: “coltivai innumerevoli fichi, viti e ulivi”.
Ancor oggi, il detto popolare
Olivari ri to nannu, cieusi ri to patri, vigna tò
conferma la necessità di un minimo di altruismo in coloro che si accingono ad impiantare nuovi uliveti. Il detto riportato si traduce infatti: “Olivi di tuo nonno, gelsi di tuo padre, vigna tua”, e si riferisce ai tempi necessari perché una certa pianta inizi a dare frutti copiosi.
Chi pianta oggi un ulivo, insomma, non lo fa per sé ma perché ne traggano profitto i suoi nipoti.
A presto per la seconda puntata!
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